Dopo la pausa delle festività, girovagando sul web, ho trovato questo filmato del sociologo A.Accornero.
Da qui mi è venuto lo spunto di scrivere questo post, un misto di riflessioni mie e del sociologo.
Mi pare un buon punto di ri-partenza del 2008 per parlare di “modelli”di lavoro.
Da qui mi è venuto lo spunto di scrivere questo post, un misto di riflessioni mie e del sociologo.
Mi pare un buon punto di ri-partenza del 2008 per parlare di “modelli”di lavoro.
In tutte le epoche lavorative (Rivoluzione Industriale, Fordismo e Post-fordismo) c’è stata una transizione storica da un modello di produzione e di consumo a un altro, e, di conseguenza, il lavoro è cambiato perché sono cambiate le strutture e il funzionamento delle imprese.
Durante la rivoluzione industriale e nel fordismo si aveva un modello rigido di lavoro, d’ impresa, e di mercati.
Gli imprenditori, nel periodo di Taylor e Ford, non desideravano assumere lavoratori e licenziarli subito. Per garantire la produzione di massa avevano bisogno di manodopera stabile e di una grande subordinazione: si veniva “ pagati per lavorare e non per pensare”.
Per conquistare e ampliare i mercati non bastava che gli approvvigionamenti fossero costanti, i prodotti standardizzati, la produzione regolare: occorreva che l’apporto della forza lavoro fosse stabile,assiduo,disciplinato. Proprio per questi motivi fu introdotto, per legge (in alcuni Paesi) il contratto di lavoro a tempo indeterminato, che nell’Italia fascista del 1926 soppiantò il Codice civile del 1865, secondo il quale si poteva lavorare al servizio di altri soltanto «a tempo». I lavoratori, specie se skilled, potevano andarsene liberamente dando luogo a un turn-over che assillava gli imprenditori.
Il post-fordismo ha bisogno,invece, di flessibilità, non soltanto produttive ma anche allocative.
Si creano, allora, diversità tali che il mondo del lavoro non sembra più quel sistema unitario che era stato creato dal fordismo e tenuto insieme dalla grande industria. Ad esempio, decrescono i tragitti lavorativi firm-portfolio, nei quali le competenze sono approfondite in ambito aziendale secondo la tradizione europea (e in parte giapponese) della mobilità sociale «sul posto», mentre crescono i tragitti worker-portfolio, nei quali le esperienze si accumulano cambiando azienda, secondo la tradizione americana della mobilità sociale «fra i posti».
Oggi il lavoro desta preoccupazione perché comporta maggiori probabilità e/o frequenza di impieghi discontinui, che ostacolano l’accumulo di esperienze, rendendo incerto il ricollocamento professionale, le carriere lavorative tortuose e quasi impossibili i progetti di vita: diventa perfino arduo ottenere prestiti.
Parlando in generale, questo è lo scenario di precarietà noto a molti giovani, di cui viene incolpato il lavoro flessibile perché genera insicurezza. Da qui i rimpianti per un passato in cui gli impieghi erano più stabili specie nei paesi, settori e imprese dove leggi, contratti o accordi davano maggiori certezze.
Le tutele di ieri erano pensate,però, per un altro lavoro e per altri lavoratori: i sistemi di welfare più evoluti, infatti, garantivano che la continuità dell’impiego non fosse minacciata da crisi aziendali e da inadempienze imprenditoriali .
Oggi il welfare, invece, deve (o dovrebbe) garantire che nessuno perda diritti e nessun diritto venga perduto nelle discontinuità dell’impiego. Quando Marshall scrisse: «Un uomo che ha perso il suo lavoro, ha perso il suo passaporto per la società» , sollevò una questione di cittadinanza del lavoro. Questa si ripropone oggi, con forza.
Una vita lavorativa più flessibile, infatti, non può spezzarsi quando si passa da un impiego all’altro, oppure da un lavoro dipendente a un lavoro autonomo, o viceversa. Chi è più mobile non può essere meno tutelato o più penalizzato: dovrebbe essere, maggiormente ricompensato, perché dà al sistema la snellezza che esso richiede.
Questo principio è basilare per una sicurezza sociale che aggiorni le tutele di ieri senza rinunciare al cammino storico della solidarietà e dell’uguaglianza .
Il post-fordismo sembra proporre ai lavoratori un lavoro di qualità e una partecipazione responsabile. Queste potrebbero essere le basi di un compromesso sociale all’altezza di quello fordista, ma non è detto che imprenditori e manager sappiano suscitare la partecipazione di cui hanno bisogno. In troppe aziende, infatti, se ne vedono ben poche tracce.
Tawney scrisse: «È ozioso attendersi che gli uomini diano il meglio di se stessi a un sistema in cui non hanno fiducia, o che abbiano fiducia in un sistema nel cui controllo non hanno alcuna parte» .
Siamo pronti a questa sfida?
3 commenti:
Impreditoria diffusa, condivisa e partecipata da tutti.
Forse è una soluzione da tenere presente.
Giusto Prime.
Non si può pensare di mettere i lavoratori ai margini del meccanismo produttivo. I lavoratori devono sentirsi coinvolti. Ma in fondo per farlo non serve nemmeno il tempo indeterminato, che per ceri versi crea forme di distanza diverse. Non trovi cara Lady?
arnald
Giusto Prime.
Non si può pensare di mettere i lavoratori ai margini del meccanismo produttivo. I lavoratori devono sentirsi coinvolti. Ma in fondo per farlo non serve nemmeno il tempo indeterminato, che per ceri versi crea forme di distanza diverse. Non trovi cara Lady?
arnald
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