La caduta di un governo, qualunque esso sia la composizione dei colori partitici, non è certo motivo di festa, tantomeno per la nostra nazione. In questi giorni non faccio altro che sentire tutto e di più, sono già cominciate le spartizioni delle poltrone (purtroppo).
Il nostro Paese affronterà, ora, un momento serio, pesante per tutti noi cittadini, costoso in termini economici…
E’ difficile essere ottimisti, anche perché ci si sente con le mani legate. Gaber, in una sua canzone, diceva che tutti noi ce la prendiamo con la storia ma, lui sosteneva, che la colpa è nostra…
lunedì 28 gennaio 2008
Destra e Sinistra...
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28.1.08
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lunedì 21 gennaio 2008
Pensieri...lavorativi 2
In questi giorni, mi è capitato di leggere più volte, su diverse riviste, le probabili soluzioni (personali) di opinionisti riguardo ai problemi del mondo del lavoro.
Alcuni opinionisti sono sempre e soltanto lamentosi, e qui mi pare inutile parlarne; poi c'è
P.Ichino che parla del forte dualismo tra lavoratori (tra cosiddetti "insider" e "outsider") nel nostro mercato lavorativo.
La soluzione meglio auspicabile, per Ichino, sarebbe un unico contratto di lavoro per tutti i lavoratori dipendenti e disciplinato in modo che siano garantite:
1)la necessaria fluidità nella fase di accesso al lavoro dei giovani
2) una ragionevole flessibilità nella fase centrale della vita lavorativa, secondo i migliori standard internazionali
3) peso in uguale misura per tutti.
La sua soluzione sarebbe, quindi:
Per i licenziamenti dettati da esigenze aziendali è invece soltanto il costo del provvedimento a proteggere il lavoratore e a penalizzare l'impresa che ne fa abuso: chi perde il posto senza propria colpa ha sempre automaticamente diritto ad un congruo indennizzo, crescente con l'anzianità di servizio in modo che la protezione sia più intensa nella parte finale della vita lavorativa; e ha diritto ad un'assicurazione contro la disoccupazione disegnata secondo i migliori modelli scandinavi, con premio interamente a carico dell'impresa, che si aggrava al crescere del numero dei licenziamenti..."
Inoltre, ci sono certe demagogie (sempre, secondo me) riguardo alla sua definizione di società socialista, ecc.
A parte i personali punti di vista diversi, mi sono piaciute, però, alcune sue considerazioni che qui riprendo e commento.
Zecchi afferma che le generazioni precedenti hanno saputo scommettere sul loro futuro, mentre oggi
Mi sono chiesta: possibile che abbiamo tanta paura del futuro, abbiamo paura di rischiare! Perchè? Magari ne conoscessi la risposta...!
Bauman sostiene che la "Paura" è il nome che diamo alla nostra incertezza, alla nostra ignoranza della minaccia, o di ciò che c'è da fare.
E allora? Mi rendo conto, con i tempi che corrono, che non è facile affermare che bisogna ricominciare, veramente, ad inseguire i nostri sogni...
Tuttavia, lo dico lo stesso.
Vivere senza tentare, significa rimanere con il dubbio che ce l'avresti fatta. (Jim Morrison)
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21.1.08
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martedì 15 gennaio 2008
Lavoro a tempo determinato
Un pò di ironia non guasta mai...
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15.1.08
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lunedì 14 gennaio 2008
Che ne sarà di noi?
Il titolo al post è tutto un programma, però credo che questo sia quello giusto per indicare il momento di transizione che il mio mondo lavorativo sta attraversando. (Leggetevi anche questo post che avevo da tempo scritto)
FARMACI: DOMPE', PER 2008 UN CAMBIO MARCIA CHE FA BEN SPERARE
MARVECS: 200 INFORMATORI SCIENTIFICI DEL FARMACO IN ESUBERO
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14.1.08
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martedì 8 gennaio 2008
Pensieri...lavorativi
Da qui mi è venuto lo spunto di scrivere questo post, un misto di riflessioni mie e del sociologo.
Mi pare un buon punto di ri-partenza del 2008 per parlare di “modelli”di lavoro.
In tutte le epoche lavorative (Rivoluzione Industriale, Fordismo e Post-fordismo) c’è stata una transizione storica da un modello di produzione e di consumo a un altro, e, di conseguenza, il lavoro è cambiato perché sono cambiate le strutture e il funzionamento delle imprese.
Durante la rivoluzione industriale e nel fordismo si aveva un modello rigido di lavoro, d’ impresa, e di mercati.
Gli imprenditori, nel periodo di Taylor e Ford, non desideravano assumere lavoratori e licenziarli subito. Per garantire la produzione di massa avevano bisogno di manodopera stabile e di una grande subordinazione: si veniva “ pagati per lavorare e non per pensare”.
Per conquistare e ampliare i mercati non bastava che gli approvvigionamenti fossero costanti, i prodotti standardizzati, la produzione regolare: occorreva che l’apporto della forza lavoro fosse stabile,assiduo,disciplinato. Proprio per questi motivi fu introdotto, per legge (in alcuni Paesi) il contratto di lavoro a tempo indeterminato, che nell’Italia fascista del 1926 soppiantò il Codice civile del 1865, secondo il quale si poteva lavorare al servizio di altri soltanto «a tempo». I lavoratori, specie se skilled, potevano andarsene liberamente dando luogo a un turn-over che assillava gli imprenditori.
Il post-fordismo ha bisogno,invece, di flessibilità, non soltanto produttive ma anche allocative.
Si creano, allora, diversità tali che il mondo del lavoro non sembra più quel sistema unitario che era stato creato dal fordismo e tenuto insieme dalla grande industria. Ad esempio, decrescono i tragitti lavorativi firm-portfolio, nei quali le competenze sono approfondite in ambito aziendale secondo la tradizione europea (e in parte giapponese) della mobilità sociale «sul posto», mentre crescono i tragitti worker-portfolio, nei quali le esperienze si accumulano cambiando azienda, secondo la tradizione americana della mobilità sociale «fra i posti».
Oggi il lavoro desta preoccupazione perché comporta maggiori probabilità e/o frequenza di impieghi discontinui, che ostacolano l’accumulo di esperienze, rendendo incerto il ricollocamento professionale, le carriere lavorative tortuose e quasi impossibili i progetti di vita: diventa perfino arduo ottenere prestiti.
Parlando in generale, questo è lo scenario di precarietà noto a molti giovani, di cui viene incolpato il lavoro flessibile perché genera insicurezza. Da qui i rimpianti per un passato in cui gli impieghi erano più stabili specie nei paesi, settori e imprese dove leggi, contratti o accordi davano maggiori certezze.
Le tutele di ieri erano pensate,però, per un altro lavoro e per altri lavoratori: i sistemi di welfare più evoluti, infatti, garantivano che la continuità dell’impiego non fosse minacciata da crisi aziendali e da inadempienze imprenditoriali .
Oggi il welfare, invece, deve (o dovrebbe) garantire che nessuno perda diritti e nessun diritto venga perduto nelle discontinuità dell’impiego. Quando Marshall scrisse: «Un uomo che ha perso il suo lavoro, ha perso il suo passaporto per la società» , sollevò una questione di cittadinanza del lavoro. Questa si ripropone oggi, con forza.
Una vita lavorativa più flessibile, infatti, non può spezzarsi quando si passa da un impiego all’altro, oppure da un lavoro dipendente a un lavoro autonomo, o viceversa. Chi è più mobile non può essere meno tutelato o più penalizzato: dovrebbe essere, maggiormente ricompensato, perché dà al sistema la snellezza che esso richiede.
Questo principio è basilare per una sicurezza sociale che aggiorni le tutele di ieri senza rinunciare al cammino storico della solidarietà e dell’uguaglianza .
Il post-fordismo sembra proporre ai lavoratori un lavoro di qualità e una partecipazione responsabile. Queste potrebbero essere le basi di un compromesso sociale all’altezza di quello fordista, ma non è detto che imprenditori e manager sappiano suscitare la partecipazione di cui hanno bisogno. In troppe aziende, infatti, se ne vedono ben poche tracce.
Tawney scrisse: «È ozioso attendersi che gli uomini diano il meglio di se stessi a un sistema in cui non hanno fiducia, o che abbiano fiducia in un sistema nel cui controllo non hanno alcuna parte» .
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8.1.08
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