lunedì 17 settembre 2007

PRECARI E CONTENTI



Oggi vi voglio parlare delle mie impressioni su questo libro, tra l’altro l’autrice, Angela Padrone, spesso partecipa attivamente nel mio blog ( e nel suo, ha anche descritto la mia storia) con i suoi commenti e quindi, vi confesso, che ero molto curiosa di leggerlo.
La prima cosa che mi sono chiesta, appena preso in mano il libro, è stata: “ma si può essere precari e contenti?” Considerato il periodo in cui non si parla d’altro che del “Grillismo” e di “schiavitù post-industriale giovanile”, il primo pensiero che mi è venuto in mente è stato: “l’autrice, Angela Padrone, giornalista del Messaggero, nonché facente parte in primis della direzione del giornale, già per il fatto di essere giornalista (e quindi, come quasi noi tutti pensiamo, appartenere ad una “casta” di poteri forti del nostro Paese), non vuole fare altro che convincerci che precario è bello”.
E invece, niente di tutto questo…
Sin dai primi capitoli, dove lei racconta la sua storia lavorativa, con le emozioni, le difficoltà e speranze, comuni a quanto pare in ogni tempo, ci si rende conto che è tutta un’altra storia.
La parte centrale del libro è fatta di storie vere, vissute da giovani e meno giovani, che hanno lasciato un segno indelebile dove sono passati. Ogni persona è il “protagonista” della propria vita. E, a volte, sono proprio le difficoltà che fanno uscire il meglio di se stessi, la loro originalità e genialità. In ognuna di queste storie, spesso ho ritrovato pezzi anche della mia vita.
Ognuno, in base alla propria indole, o si sente “sfruttato” e basta, o si sente, nonostante tutto, nelle condizioni di trarre anche degli insegnamenti dal proprio senso di sfruttamento. Un esempio di ciò lo si trova molto ben descritto nel capitolo dedicato ai call-center. In quello che lei ha visitato c’è di tutto, dalla casalinga contenta di guadagnare qualcosa e di correre a casa dai figli a qualunque orario a chi, laureato, si trova lì perché non ha trovato di meglio, ecc.
Angela Padrone afferma che adesso ci sono più opportunità di lavorare rispetto agli anni ’70 e ’80. Prima o si era fuori o si era dentro, o ancora peggio in nero (piaga purtroppo ancora molto attuale).
Lei sostiene che, grazie all’attuale flessibilità nel lavoro, ci possono essere occasioni di crescita inimmaginabili. Questo, però, spesso viene messo tra parentesi, perché in Italia la flessibilità è vissuta come precarietà, e come lei stessa afferma… “il precariato in Italia è visto come la peste manzoniana. E’ un bubbone e non ci si vuole convivere. Si ha paura di guardarlo, magari ci si nasconde sotto le lenzuola, come fa Don Rodrigo quando ci si ammala. Diventa impossibile essere obiettivi…”
Nelle conclusioni del suo libro, c’è una bellissima descrizione di quello che è stata ed è la disoccupazione in Italia, sia in “cifre” che in “percezione”. C’è anche un excursus sulle normative che hanno portato in Italia la flessibilità, risalenti molto prima al 2003, anno della “famigerata” legge 30 (Biagi), che secondo la maggior parte di noi ha portato il precariato in Italia.
Mi ha colpito inoltre, molto, il capitolo intitolato “Gli indiani, i giapponesi e la flexicurity”. Lei qui afferma … “ l’Italia si è avvicinata alla media internazionale nella flessibilità e temporaneità del lavoro, ma non ha istituito forme di protezione o di salario minimo per chi non ha un posto fisso. Ben diverso sarebbe se anche chi perde un lavoro precario beneficiasse di sistemi di salario minimo e di ricerca di un altro lavoro, come in molti altri paesi. In uno slogan si potrebbe dire: via i fannulloni e sì alla pensione per i precari….. Sono correttivi indispensabili in un mondo sempre più flessibile…..”
Penso che in questo mondo lavorativo, sia questo il vero cammino da intraprendere, d’altronde è inutile bendarsi gli occhi. Il mondo non può più tornare indietro e ormai, diffido da chi fa demagogia sciocca pensando che il lavoro debba essere a vita e soltanto a tempo indeterminato.
Ognuno di noi ha le capacità di tirare fuori il meglio di sé; le storie di questo libro lo dimostrano, i talenti sono tanti e differenti che difficilmente chi lavora con onestà, professionalità ed umiltà rimane a casa. E’ sempre bene sapere dove si vuole andare, avere, insomma, ben chiaro in mente l’obiettivo e poi agire per raggiungerlo, con un pizzico di entusiasmo che non guasta mai e lottando anche per i propri diritti.
Concludo con le parole dell’autrice: “ le storie raccontate in questo libro dimostrano quali risultati si possono ottenere con l’intelligenza, la convinzione e la passione ”.
Che altro dire, se non buona lettura!!

2 commenti:

angela padrone ha detto...

Ciao Anna,
una parte che mi ha emozionata della tua recensione è quella in cui dici "Niente di tutto questo...". Cioè: non pensate di giudicare affrettatamente, non facciamoci sempre guidare da ciò che crediamo di sapere: andiamo a guardare, non ci fidiamo del sentito dire, dei luoghi comuni. Comunque grazie, è bello scoprire cosa gli altri vedono nel nostro lavoro, dà sempre qualcosa in più.
angela

Loud ha detto...

E' quello che sostengo anche io. Sotto alcuni punti di vista tutti siamo precari. Purtroppo oggi vedo spesso giovani che si cercano un lavoro perché è ora di lavorare, non si impegnano davvero a trovare il lavoro giusto e con passione. Se uno a passione, se lavora bene (anche sbagliando, non importa, l'importante è risultato finale perché c'è sempre da imparare), se uno non si approfitta dell'altro (il datore), cioè se c'è collaborazione vera, leadership (su cui sto scrivendo una breve tesi) e fidelizzazione, allora non sarà licenziato! La flessibilità non è per forza sinonimo di precarietà, e non certo opera della legge Biagi. Oggi non è più adatto al nostro paese la subordinazione come la conoscenza i nostri genitori. E flessibilità non deve significare "cambio di lavoro facile" ma deve stare a significare "capacità di adattarsi, di svolgere attività diverse", questo anche nello stesso contesto aziendale. Ciò pieno sviluppo e sfruttamento del fattore intellettuale, delle persone.
Si fa presto a parlare per partito preso.
Ma la flessibilità può anche essere un fattore positivo. Ma deve esserci onestà, questo sì.
Se le parti del rapporto di lavoro imparano a collaborare e dialogare, allora tutto si supera e si può puntare ad una crescita professionale ben più alta di quella prevista nella subordinazione tipicamente conosciuta.
Ma quanti giovani hanno voglia di mettersi in gioco? Spesso si segue lo schema tipico del "trovo un lavoro per portare a casa la busta", che poteva andare bene per la precedente generazione o può ancora andar bene per la classe operaia. Ma nel settore impiegatizio, dove l'applicazione diretta degli studi può essere maggiore ed è requisito sempre più fondamentale, il discorso cambia: bisogna fare quello che si desidera fare, applicare le proprie conoscenze, applicare sè stessi con dedizione e passione. Insomma, imparare a fare impresa, collaborando a tutto tondo con l'imprenditore, e non fare solo i sottoposti. Ecco come la flessibilità smette da subito di essere sinonimo di precarietà e riassume i suoi significati originari.

Qualche altro mio pensiero collegato? Ecco qua:

- Quando la leadership è speculare della "collaborazione nell'impresa" enunciata dal legislatore del 1942;

- Sviluppina per alcuni giovani dell'attuale mercato del lavoro;

- Treu-Biagi: oggi vince la riforma del 2003. Le modifiche future? Probabilmente solo ideologiche e nessuna centrerà il vero bersaglio.

Penso possa bastare, almeno per oggi ;)

Ciao,
Luca

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