giovedì 28 febbraio 2008

Donne e lavoro


Scrivo questo post partendo da una discussione sul blog di Arnald sulla questione maternità e dal fatto che proprio ieri, sono stata a casa (per la gioia di Ghost – senza essere retribuita -) per assistere mia figlia malata…
In questo post, un uomo ha descritto la sua esperienza, sul posto di lavoro, di come alcune donne “approfittano” paradossalmente di una legge sulla tutela della maternità.
Mi è parso così strano questo argomento che quasi mi è sembrata una “guerra tra poveri”, nel senso di una guerra tra uomini che sono quasi gelosi di questi diritti (per alcuni, esagerati) e noi donne, alla presa tra le gioie e dolori di una maternità e soprattutto di una vita successiva di madre-lavoratrice sempre sul filo del rasoio del tempo (con il continuo senso di colpa nei confronti dei figli e della carriera lavorativa che stenta, sempre, a crescere).
Ho trovato sulla rete questo video (molto interessante e che vi consiglio di vedere) che descrive le differenze esistenti di welfare tra la nostra Italia e il resto di Europa (non è vero che siamo la nazione che tutela di più la maternità).
Quello che più mi ha colpito, in queste interviste, è purtroppo il fatto che, spesso, all’interno delle proprie famiglie, il ruolo del padre è quasi inesistente (se chiedete ad un uomo di parlarvi del congedo parentale che gli spetta, quasi nessuno sa rispondervi) e il fatto che noi donne ci accontentiamo del primo lavoro che troviamo, proprio per essere sempre presenti nel lavoro di cura di figli (e non solo).
E’ chiaro, allora, che questo costituisce una discrimante per i datori di lavoro, sia al momento dell’assunzione (non è raro che durante la selezione ci venga chiesto se abbiamo figli o se intendiamo averne), sia al momento di un’eventuale crescita professionale.
Se il papà non collabora, è ovvio che una donna-mamma si assenti più spesso dei propri colleghi, sia per accudire un figlio malato che per accompagnarlo dal pediatra, ad esempio.
I tempi del lavoro, insomma, non coincidono con i tempi della famiglia. Noi donne, per forza, dobbiamo riuscire a conciliare i nostri impegni professionali con quelli familiari senza poterci dedicare, per ovvie ragioni, “anima e corpo” al nostro lavoro. La cosa peggiore, poi, è non avere neanche del tempo libero per potersi dedicare a se stessi, ai nostri hobbies, ecc.
Concludo affermando amaramente, purtroppo, che il problema è soprattutto di natura culturale; fino a quando si relegherà il ruolo di cura, solo a noi donne, non ci sarà legge che tenga che sappia riconoscere, ufficialmente e pienamente, il ruolo e i diritti di noi donne lavoratrici.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Cara Lady,

tu hai ragione sul fatto che in questo paese non ci sono ammortizzatori sociali (io ne faccio un mio cavallo di battaglia), ma Ghost, mi permetto di dire, non voleva certo dire che le donne non devono avere diritti.
Lui ha semplicemente parlato del nostro solito (italiano) modo di fare. Hai diritto alla maternità? E allora appena sai di essere incinta ti fai fare un certificato che notifica che sei a rischio aborto. è una pratica diffusa, lo so io, lo sai tu e lo sanno anche i datori di lavoro. Altrimenti secondo te, perché è diventata una prassi domandare a una donna durante un colloquio di lavoro: "Lei vuole avere figli?" (che porca domanda pure questa). - arnald

Eleonora Voltolina ha detto...

Caro Arnald

come sai sono già intervenuta sul tuo blog nella discussione sull'argomento. Ci torno volentieri, dato che Anna rilancia, e ti dico che non è così frequente come tu dici che le donne si facciano fare un certificato di "maternità a rischio".
Ci sono tante ragioni incontrovertibili che sostengono la mia tesi. Ne prendo solo due per non occupare troppo spazio.
1) le donne sanno che con ogni maternità che decidono di portare avanti mettono IN SERIO PERICOLO la loro carriera. Migliaia di casi ogni anno vengono segnalati (e purtroppo altre migliaia di casi vengono taciuti) di mobbing sul posto di lavoro alle neomamme, di demansionamenti, di scavalcamenti. Le donne sanno che fare un bambino significa rinunciare alla promozione in vista, o all'aumento di stipendio. Sanno che fare il figlio non conviene. E quindi quelle che tengono alla loro carriera cercano di stare lontane dall'ufficio il meno possibile e di tornare al lavoro il prima possibile, anche a costo di lasciare un neonato di soli 3 o 4 mesi con nonne, babysitter o (se sono fortunate a trovarne uno e ad avere i soldi per pagarlo) presso un asilo nido.
2) Le donne posticipano sempre di più la maternità. Il nostro corpo è biologicamente programmato per procreare tra i 20 e i 30 anni: questo è il momento in cui gli ovuli sono più forti, il tessuto dell'utero è più resistente, il corpo è in condizioni migliori per resistere al parto etc. Posticipare la maternità vuol dire rimanere incinte dopo i 30 anni, talvolta addirittura dopo i 35. Questo porta ad affrontare gravidanze a rischio: DAVVERO a rischio, non per un capriccio della donna o per la disonestà di un medico.
Ecco due riflessioni che spero aiuteranno Arnald e Ghost a moderare la loro posizione su questo tema.
E sono pienamente d'accordo con Anna: evitiamo le guerre tra poveri, please. Tanto noi trentenni, e ancor di più le ventenni che tra qualche anno cominceranno ad aver voglia di figliare, la maternità garantita ce la sogneremo. Proprio per colpa di quei datori di lavoro (nella maggior parte dei casi UOMINI) che durante un colloquio (in spregio alla legge) si permettono di chiedere a una donna se ha intenzione di far figli, e di scartarla se risponde di sì.

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